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Intervista a Radu Mihaileanu, regista de La sorgente dell'amore

05/03/2012 | Interviste
Intervista a Radu Mihaileanu, regista de La sorgente dell'amore

In occasione dell’uscita del suo ultimo film, distribuito da Bim il prossimo 9 marzo, Radu Mihaileanu torna a Roma questa volta per raccontare le donne di un piccolo ed isolato villaggio tra il Nord Africa e il Medio Oriente, simbolo di quell’amore universale capace di cambiare le sorti del mondo. Costrette a dividersi fra l’amore per il proprio uomo, e quello per se stesse, ostacolato dall’ostracismo della cultura mussulmana più integralista, queste donne indicono lo sciopero dell’amore e del sesso finché gli uomini non porteranno l'acqua al villaggio.

Qual è il motivo per il quale ha scelto di ambientare questo film in un villaggio arabo e non in quello di un’altra cultura?

Innanzi tutto questa storia è ispirata da un fatto realmente accaduto in un villaggio turco e di conseguenza la cultura che dovevo analizzare era necessariamente quella arabo musulmana. Al tempo stesso avrei potuto parlare delle problematiche relative ai fondamentalismi e del, non meno trascurabile, problema della mancanza d’acqua che da reale fonte di vita è anche metafora di una siccità dei sentimenti.

La frase finale del film è “la sorgente di una donna è l’amore. La sorgente di una donna è il suo uomo”. Guardando il film è assolutamente chiaro che le donne non lottano contro l’uomo, ma contro un sistema patriarcale e marito centrico. Perché, mi chiedo, far concludere il film con questa frase?

La “guerra” delle donne nel mio film non è quella verso i propri mariti, con i quali vorrebbero essere il centro del loro stesso universo, ma contro le opinioni stantie di certi uomini che la pensano altrimenti. Tutte le lotte che ha intrapreso il Movimento Femminista, devono essere viste più come una ricerca di quella parità dei diritti che faccia vivere in equilibrio entrambi. In alcune culture quella proporzionata conciliazione è definita con due termini: Yin e Yang. La vera diatriba scaturisce dalla mancanza di uguaglianza, laddove lo scipero dell’amore è prima di tutto un sacrificio per le donne stesse, le quali non desiderano privarsi ne dell’amore ne tantomeno del desiderio nei confronti del proprio uomo.

C’è un personaggio aggiuntivo nei suoi film, ed è interpretato dalla musica; strumento con il quale lei ha la possibilità di far chiarezza su alcune situazioni. In questo film è assolutamente preponderante e funzionale alla storia.
Io ritengo che la musica sia, tra le diverse forme artistiche, quella che più di ogni altra abbia la libertà di esprimere dei sentimenti che arrivino in maniera universale ad ognuno di noi. La musica è, infatti, allo stesso tempo strumento per l’identità di un popolo, poiché svincolata dalle problematiche legate al linguaggio. E’ radicata nella tradizione di ogni comunità. La cultura arabo-berbera da alla propria musica un significato talmente importante dal “costringermi” ad inserirla come elemento dominante.

Una delle caratteristiche principali del suo cinema è quella di saper equilibrare sapientemente il tragico con il comico. Qual è la sua ricetta?

Più che una ricetta, forse, bisognerebbe ringraziare il dittatore sotto il quale sono cresciuto: Ceausescu. Egli mi ha fatto vivere in un ambiente dove il miglior antidoto alla tragicità della situazione era quello di riderci sopra. Essendo insostenibile l’orrore che avevamo di fronte, utilizzavamo l’umorismo come ossigeno per andare avanti. Io penso sia il modo migliore, e a conferma di questo, molto dopo ho scoperto che l’ironia era il sentimento con il quale reagivano i prigionieri dei campi di concentramento. In realtà in tutti i miei film l’evento scatenante è tragico (in questo caso specifico è la morte di un bambino), ma da questo cerco di dimostrare come  la forza dell’animo umano sia capace di superare e reagire ad ogni difficoltà.

Serena Guidoni

 


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